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Non c’è più acqua, o almeno non ce n’è più come un tempo. Un articolo pubblicato su Science (1 febbraio 2008) da un gruppo di esperti di idrologia e climatologia richiama l’attenzione su un fenomeno che rischia di essere sottovalutato.

Spiega uno dei coautori Tennis Lettenmaier, professore di ingegneria civile alla University of Washington:

«Con il cambiamento climatico, gli anni passati non sono necessariamente rappresentativi per il futuro», «Questo lavoro dimostra che il modo in cui sono stati condotti gli affari nel passato non funzionerà a lungo con un clima che cambia».

Quando parla di affari Lettenmaier si riferisce a quelli degli Stati Uniti, e in particolare ai 500 miliardi di dollari annui per le infrastrutture idriche. Questi calcoli andavano bene finchè reggevano gli schemi classici di una variazione costante nelle risorse idriche. Ma l’interferenza umana ha prodotto grandi cambiamenti nel clima del nostro pianeta. Pioggia, neve, correnti: tutto è cambiato, fenomeni fondamentali per chi deve gestire le risorse di acqua e calcolare i periodi di siccità o la probabilità di una qualche catastrofe legata al clima, come inondazioni o uragani.
I risultati della ricerca si estendono dunque ben al di là dei confini statunitensi, e investono l’intero pianeta. «Storicamente, guardare alle osservazioni passate si è rivelato un buon metodo per stimare le condizioni future», interviene Christopher Milly, idrologo del Us Geological Survey. «Ma il cambiamento climatico moltiplica le possibilità che il futuro porti inondazioni mai riscontrate nelle vecchie misurazioni».

Il passato è morto, dicono in sostanza i ricercatori, e anche se riuscissimo a ridurre di molto le emissioni di gas serra, il riscaldamento persisterà e lo schema globale delle acque continuerà a mostrare comportamenti mai visti in precedenza.
Naturalmente la situazione cambia a seconda della regione geografica: «Le nostre stime migliori attualmente ci dicono che la disponibilità d’acqua crescerà sostanzialmente nel nord dell’Euasia, in Alaska, in Canada e in alcune regioni tropicali, e decrescerà sostanzialmente in Europa, nel Medio Oriente, nel sud dell’Africa e nel Nord America sudoccidentale», dice Milly.


Nelle regioni aride aumenterà la siccità, e in un secondo articolo pubblicato questa settimana da Science si parla più approfonditamente del futuro prossimo in Africa e Asia. «La maggior parte del miliardo di persone povere nel mondo dipendono dall’agricoltura per la loro sopravvivenza», spiega David Lobell, del Program on Food Security and the Environment (Fse) presso la Stanford University, che si focalizza su soluzioni ambientalmente sostenibili per la fame nel mondo. «Sfortunatamente l’agricoltura è anche una delle attività umane più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Capire dove questi cambiamenti colpiranno più duramente, su quali tipi di raccolti e su quale scala temporale, sarà importante per i nostri sforzi per combattere la fame e la povertà nei prossimi decenni».

Nelle loro analisi i ricercatori si sono concentrati sulle 12 regioni in cui, secondo la United Nations Food and Agricolture Organization, vive una gran parte delle popolazioni che soffrono di malnutrizione, incluse Asia, Africa subsahariana, Caraibi e Sud America.
Per calcolare l’impatto del riscaldamento globale sull’agricoltura gli studiosi hanno analizzato 20 modelli di cambiamento climatico e sono arrivati alla conclusione che dal 2030 la temperatura media nella maggior parte di queste aree aumenterà di un grado centigrado, mentre diminuiranno le precipitazioni stagionali. L’Asia e l’Africa meridionali potrebbero subire i danni peggiori.

Commenta Marshall Burke, coautore dell’articolo:

«Siamo stati sorpresi dal fatto che, se non ci adattiamo, queste regioni potrebbero soffrire molto e in tempi molto brevi», «Per esempio, il nostro studio indica che l’Africa del Sud potrebbe perdere più del 30 per cento del suo prodotto principale, il mais, nei prossimi vent’anni, con implicazioni devastanti sulla fame nella regione».

Potenziali perdite altrettanto significative si dovrebbero verificare in Asia meridionale, dove andrebbe perduto il 10 per cento delle colture principali, tra cui miglio, mais e riso.

«Analizzando le regioni in modo sistematico ed esaminando una grande varietà di colture importanti per i poveri, speriamo di fornire un modo per dare delle priorità agli investimenti per l’adattamento» spiega Lobell. Sebbene esistano sistemi di adattamento pressoché gratuiti, come per esempio cambiare il momento della semina o della raccolta, o modificare le varietà di colture, «probabilmente i maggiori benefici risulteranno da misure più costose, come lo sviluppo di nuove varietà di colture e l’espansione dell’irrigazione», scrivono gli autori. «Questi adattamenti richiederanno investimenti sostanziali da parte degli agricoltori, dei governi, degli scienziati e delle organizzazioni per lo sviluppo».
I soldi necessari sono molti, e le risorse spesso non bastano. Questo studio comunque arriva a proposito , come fa notare Rosamond Naylor, direttore del Fse. «La comunità filantropica internazionale sta nuovamente per investire nella produttività agricola nei paesi in via di sviluppo, e il nostro studio aiuterà a mostrare dove potrebbero essere più utili questi investimenti».

di SARA CAPOGROSSI COLOGNESI [via|enelmagazine]

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