Nike e Geox si impegnano a salvare l’Amazzonia grazie a Greenpeace

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foto: Greenpeace
foto: Greenpeace

Un’altra vittoria portata a casa da Greenpeace. Questa volta sotto accusa c’erano le grandi multinazionali delle scarpe, le quali si interessano poco alla provenienza della pelle bovina che utilizzano per assemblare il prodotto finito. In particolare la problematica riguardava la deforestazione dell’Amazzonia.

Dopo ricerche sotto copertura durate 3 anni, i volontari di Greenpeace hanno potuto accertare che larga parte della deforestazione amazzonica avviene per far posto ai grandi allevamenti di bovini, da cui poi viene tratta la pelle che finisce alle multinazionali. Per questo Greenpeace ha chiesto con forza che queste si impegnassero ad informarsi maggiormente sulla tracciabilità dei loro materiali, e che non acquistassero nulla che provenisse dal Sudamerica, finché non fosse certo che le pelli trattate non provengano da pascoli illeciti.

All’appello, inviato a Timberland, Clarks, Adidas, Reebok, Geox e Nike, solo queste ultime due hanno risposto con due impegni. La Nike ha infatti promesso che rivedrà la sua politica di acquisti per accertarsi che questa non farà male all’Amazzonia, mentre Geox ha sottoscritto che:

garantirà che il pellame acquistato per le proprie calzature non provenga dalla distruzione del bioma amazzonico.

Ancora nessuna risposta dalle altre aziende, le quali comunque continueranno ad essere subbissate dalle richieste dell’associazione ambientalista e dai suoi sostenitori (potete farlo anche voi direttamente dal sito di Greenpeace). L’impegno è dovuto ad un “anello debole” della catena di approvigionamento che è presente proprio all’inizio della catena, la fase dell’allevamento. E’ stato accertato infatti che in Amazzonia ogni 8 secondi un ettaro di foresta viene distrutto per far spazio al pascolo. Questa è stata accertata come la causa principale dell’aumento di CO2 nel pianeta.

Dagli allevamenti poi i commercianti senza scrupoli mandano i propri capi ad altre aziende trasformatrici in regioni lontane da quella di produzione, dalle quali poi questi possono essere trasportati. Tutto questo è possibile perché non c’è un efficace sistema di tracciabilità, che è quello che richiede Greenpeace anche alle Nazioni Unite. In assenza di questo, nel dubbio, meglio evitare di rimpolpare questo business che si fa sulle spalle del resto del mondo. Siamo ora in attesa che anche le altre multinazionali si uniscano alla battaglia.

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