Qual’è la situazione sull’ambiente in Russia? Il modello politico-economico della Russia contemporanea si fonda su una stretta e rafforzativa interconnessione tra estrattivismo, autoritarismo e guerra. Questa è la principale conclusione del rapporto “Fossil Fuel Empire” di Greenpeace International, che analizza l’impatto ambientale delle politiche russe a livello locale e globale.

Le ultime sulla situazione dell’ambiente in Russia dopo diversi anni di guerra
Secondo il rapporto, la guerra in Ucraina è in larga parte finanziata dai proventi dei combustibili fossili, i quali alimentano il militarismo e gli interessi delle élite anziché migliorare il benessere della popolazione. Queste élite, a loro volta, dipendono dallo sfruttamento delle risorse naturali per mantenere il loro potere. Si genera così un circolo vizioso che compromette la natura, la giustizia sociale e ambientale, bloccando di fatto la transizione verso uno sviluppo più sostenibile e pacifico.
Greenpeace sottolinea che l’estrattivismo, sostenuto da corruzione, propaganda e repressione, è il fondamento di un sistema in cui un ristretto circolo di potere trae profitto dallo sfruttamento delle persone, della natura e dalla conquista territoriale. Questo modello minaccia la stabilità globale, accelerando la crisi climatica e la perdita di biodiversità.
A partire dal 2022, la Russia ha visto un drastico aumento delle spese militari e per la sicurezza, che assorbono circa il quaranta per cento del bilancio federale, sottraendo fondi ai settori civili e alla tutela ambientale. La riconversione bellica ha intensificato la produzione industriale nei comparti più inquinanti, come la difesa e la metallurgia pesante. Inoltre, l’uscita delle compagnie energetiche occidentali ha privato il Paese di tecnologie che garantivano una pur parziale responsabilità nell’estrazione delle risorse.
Le conseguenze immediate sono deforestazione, contaminazione delle acque e un crescente sfruttamento del suolo. Il sistema oligarchico ha sacrificato la natura per i propri interessi, come evidenziato dall’aumento dei rifiuti industriali, dalle frequenti fuoriuscite di petrolio e dalla crescente segretezza intorno a progetti ecologicamente pericolosi. Nonostante la sua immensa estensione e il ruolo cruciale nell’equilibrio climatico globale (grazie alle sue foreste e alla vastissima area di permafrost), la Russia è anche uno dei maggiori esportatori di combustibili fossili e produttori di gas serra.
Senza un suo impegno, contrastare efficacemente la crisi climatica risulta impossibile. Le scelte politiche miopi, unite al cambiamento climatico in atto, stanno già causando il drammatico scioglimento del permafrost, con la superficie superficiale stimata in riduzione del 40-72% entro il 2100. Questo scioglimento accelererebbe ulteriormente il riscaldamento globale.
La posizione russa sulla politica climatica è mutata radicalmente: da un atteggiamento costruttivo negli anni Novanta a un deliberato ostruzionismo sostenuto dalle lobby. I piani di decarbonizzazione russi sono lenti e si basano su soluzioni tecnologiche ancora inaffidabili o poco sviluppate. L’obiettivo primario di Mosca resta l’esportazione di petrolio e gas. Parallelamente, la legislazione ambientale si è indebolita e gli attivisti e le ONG sono stati soffocati dalla repressione, in particolare con l’introduzione della “legge sugli agenti stranieri“, che ha portato alla messa al bando di Greenpeace e alla persecuzione di centinaia di attivisti ambientali.
Lo scopo è isolare il dissenso e limitare la cooperazione internazionale, creando un clima di paura. Tuttavia, nonostante la repressione, l’attivismo ambientale rimane una delle poche forme di protesta ancora attive in Russia. Movimenti locali continuano a lottare contro l’inquinamento e la deforestazione. Le proteste ambientali sono state tra le più diffuse dopo quelle contro la guerra, segnalando che la difesa dell’ambiente è un importante atto di ribellione.