Chernobyl, scatti dall’inferno

di Redazione 3

Chernobyl, scatti dall’inferno, di Massimiliano Squillace (Infinito Edizioni), foto e testi per riflettere sui rischi dell’energia nucleare, la pesante eredità dell’atomo, le conseguenze catastrofiche di un incidente nucleare della portata di Chernobyl, lontano nel tempo ma tremendamente attuale, o vicino, terribilmente vicino come Fukushima che è insieme evento del presente ma già insidia il nostro futuro. Disastri, scorie e contaminazione, eco di distruzione e morte radioattiva che si insedia come un cancro nei decenni a venire.

Riceviamo e pubblichiamo volentieri il testo scritto dal leader dei Tete de Bois, e pediatra Andrea Satta per il libro di Massimiliano Squillace.

“Taras, sedici anni…”
È difficile immaginare di essere così vicini al mostro. Chernobyl è una parola che fa tanta paura, è un nome proprio diventato sentimento comune, spavento. I muri giganti, il cemento violento, il suono del geiger, la città ferma nel tempo. Tutto è oltre la vita. Vedere le foto, leggere la cronaca al dettaglio di chi ha sfidato la propria carne per raccontare, colpisce al cuore. Io faccio il pediatra nella periferia romana, sono un musicista, canto e scrivo per i Tetes de Bois, ma sono un pediatra, lo faccio quotidianamente e vivo questo mio lavoro tra moltissimi stranieri. Qualche anno fa venni a conoscenza della storia di uno di loro, un papà ucraino di nome Boris. Autorizzato dal protagonista, cominciai a raccontarla in giro e la poi la infilai in un mio libro, perché servisse di memoria, perché fosse un monito di vita vissuta. Realtà prima che politica e salotto. È una storia che parla di Ucraina e bambini, di Chernobyl, di fuga e rinascita …
“Certo, Chernobyl, era il 1986, avevo tredici anni e da lì tutto è cambiato. È sparita la campagna, la frutta, la verdura, l’estate dalla nonna, l’inverno davanti al fuoco. Mi hanno preso, qui in Italia, quasi in prova, per un periodo di vacanza. Mia nonna è morta di tumore, qui da voi sono restato e neanche è stato tanto facile riuscirci. Unica passione vera per me, la bici, unica pelle di ricambio che mi porto addosso. A Ferrara, dove approdai all’inizio, ci andavano tutti e, almeno per questo, mi sembrava di tornare bambino. Le vecchie, i ragazzi, le donne ben vestite, gli uomini al mattino per il turno di lavoro, la vigilessa, il lattaio e il postino.
Io andavo da casa di mia nonna a scuola, anche in pieno inverno, otto chilometri ogni mattino e arrivando sempre in tempo. Conoscevo un cane lupo a metà percorso, la strada era tanto dritta che lo vedevo saltellare nella neve ancor prima di sentirlo abbaiare e da lì era come un film muto. Poi lo raggiungevo e da quel casolare pedalavo sempre insieme al suo padrone, il mio caro amico Taras.
Andavamo insieme, sotto il cielo lungo e silenzioso, sprintando a ogni ponte, a qualsiasi lampione, avvertendo l’altro all’improvviso in modo che non potesse più recuperare… fino al finale nel viale della scuola, con volata nel campo di pallone.
La mia bici era fatta coi pezzi di altre più vecchie, e andava proprio forte. Mia nonna mi ci aveva cucito un bel sellino, coi colori della Dinamo. Bianco con la striscia azzurra trasversale. La squadra del mio cuore. Anche Taras a sedici anni è morto di tumore”.

[Fonte: Chernobyl, scatti dall’inferno]

Commenti (3)

  1. ho il libro, è fantastico. brividi dalle foto e viaggio dalle parole

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