James Cameron: “le lobby del petrolio e del carbone pagano per la disinformazione”

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Il dibattito annoso tra “catastrofisti” e “negazionisti” si sa, spesso è incentrato sulle compagnie petrolifere e quelle del carbone, accusate di star finanziando una campagna di disinformazione per confondere il pubblico sulla scienza del clima. Fino a questo punto, niente di rivoluzionario, come non sorprende il fatto che purtroppo, in molti casi, sembra abbiano successo, come sta avvenendo in Italia ed in altre parti del mondo.

Ed è per questo che è incoraggiante vedere un’elegante figura che trasmette il messaggio della scienza al pubblico con una certa autorevolezza come James Cameron, che ha appena messo questa storia nel suo film campione d’incassi Avatar, il quale ora si schiera in favore degli ambientalisti e ha cominciato una sorta di “tour” televisivo per controbattere alle illazioni di pseudo-scienziati di parte.

Deforestazione: persi oltre un milione di km quadrati di foreste in 5 anni

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Tutti gli organismi internazionali che fotografano la situazione ambientale giungono sempre alla stessa conclusione: prima dell’inquinamento, prima della perdita della biodiversità e prima del problema energetico, il vero dramma che sta vivendo l’uomo è la perdita di foreste. Si tratta di un processo avviato già qualche decina di anni fa, ma ormai in continua evoluzione tanto che nemmeno le molte iniziative prese a tutela dell’ambiente sembrano fermare.

Secondo quanto riportano i ricercarcatori delle Università del South Dakota e di Syracuse (New York), nella loro ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States (PNAS), l’ammontare della perdita di foreste, a livello globale, considerando solo gli anni che vanno dal 2000 al 2005 è spaventosa: 1.011.000 km quadrati di aree verdi perse, il 3,1% delle foreste mondiali. Basti pensare, per avere un’idea della grandezza di tali numeri, che questa cifra corrisponde a 3 volte la superficie dell’Italia.

Disastro ambientale in Lousiana: migliaia di litri di petrolio sversati in zone protette

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La settimana scorsa, proprio il giorno dopo aver risolto il problema della nave cinese incagliata nella Grande Barriera Corallina australiana, sorse un nuovo problema. Una petroliera si incendiò al largo delle coste americane, tra la Louisiana ed il Messico.

Inizialmente il problema non destò preoccupazione dato che, trattandosi di un incendio, bastava spegnere le fiamme e tutto si sarebbe risolto, dato che nessuna perdita era avvenuta, ed infatti non fu dato nessun allarme, ma entrarono in azione solo le navi dei vigili del fuoco. Ma evidentemente l’incendio doveva essere più grave rispetto alle prime stime, tanto che è durato diversi giorni e, nella giornata di sabato, ha fatto affondare la nave.

L’imbarcazione trasportava 2,6 milioni di litri di petrolio greggio, i quali se per un primo momento sono stati trattenuti nelle stive, successivamente hanno cominciato a fuoriuscire dai primi fori che si sono formati qui e là nella struttura.

La deforestazione della foresta Amazzonica si è dimezzata nel 2009

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Finalmente una buona notizia: la deforestazione in Amazzonia è scesa del 51% nel periodo che va dall’agosto 2009 al febbraio 2010 rispetto allo stesso periodo 2008-2009, secondo i dati diffusi questa settimana dall’Istituto Nazionale Brasiliano per la Ricerca Spaziale (INPE). Gran parte del progresso è dovuto alla recente istituzione del Brazil Green Arch, Legal Land Program. Il successo di tale programma offre nuove speranze in quanto, se funziona in Brasile, potrà essere replicato in altre parti del mondo.

Dieci mesi fa, il Brasile ha iniziato ad attuare il suo programma contro la deforestazione. Secondo l’INPE, dei 43 comuni con i più alti tassi di deforestazione in Amazzonia, 12 hanno visto i loro tassi diminuire di più dell’80% rispetto al periodo compreso tra agosto 2008 e febbraio 2009, e altri 18 comuni hanno sperimentato un tasso di riduzione della deforestazione tra il 54 e l’80%. Solo un comune ha mostrato un aumento del 34%. L’obiettivo del programma è quello di ridurre la deforestazione dell’80% entro il 2020.

Inverni più rigidi, la colpa è del sole

radiazioni solariGli inverni sempre più rigidi e le estati sempre più torride, stando a numerose autorevoli ricerche, sarebbero una conseguenza dei cambiamenti climatici in atto, causati dal riscaldamento globale. Tuttavia sono in tanti anche i detrattori dei mutamenti climatici imputabili all’uomo, scienziati che sostengono la teoria opposta: questi cambiamenti anche bruschi di temperature medie nella storia della Terra ci sono sempre stati e rientrebbero nel ciclo naturale del Pianeta e nei suoi meccanismi regolatori e di compensazione.

Sulla scia di questo filone una nuova ricerca dell’Università di Reading nel Regno Unito suggerisce che in futuro si avranno inverni più freddi, quando il Sole sarà ad un livello inferiore di attività.
La quantità di radiazioni emesse dal Sole varia naturalmente nel tempo e subisce delle modifiche anche sostanziali nel corso dei secoli.

Cambiamenti climatici legati a maggior incidenza del cancro alla prostata

cancro alla prostataLe condizioni meteorologiche più rigide e asciutte sarebbero collegate ad un aumento dell’incidenza del cancro alla prostata. I ricercatori, che hanno esaminato la relazione nel BioMed Central’s Open Access International Journal of Health Geographics, suggeriscono che i colpevoli di questo aumento dei casi possano essere gli effetti meteorologici sugli inquinanti organici persistenti, come alcuni pesticidi e sottoprodotti industriali.

Sophie St-Hilaire ha lavorato con un team di ricercatori della Idaho State University, negli USA, per studiare la correlazione tra i vari parametri meteorologici e l’incidenza di cancro alla prostata a livello dei vari Stati americani.

Riscaldamento globale, il freddo delle montagne scende a valle

montagne valleGli effetti del riscaldamento globale in futuro potrebbe essere modificati in modo significativo dai movimenti dell’aria a livello locale nelle aree montuose. E’ quanto si apprende in un recente studio pubblicato dall’International Journal of Climatology.

Sulla base di un aumento della temperatura regionale di circa 5 gradi previsto nell’Oregon occidentale entro il 2100, gli scienziati dicono che alcune aree, come le cime montuose, potrebbero aumentare fino a 14 gradi in alcuni momenti, mentre l’ondata di aria fredda invaderebbe le valli sottostanti.

“Anche se le previsioni per i cambiamenti della temperatura media sono esatti, si è indagato molto poco su ciò che questo può significare in determinate posizioni e situazioni”, ha dichiarato Chris Daly, professore di Geoscienze alla Oregon State University.

Il vulcano islandese abbatte le emissioni di Co2

vulcano Eyjafjallajökull

Quando si dice non tutti i mali vengono per nuocere. L’eruzione del vulcano islandese dal nome impronunciabile, Eyjafjallajökull, è improbabile possa avere un impatto significativo sul clima, ma ha provocato una diminuzione delle emissioni di carbonio rilevante, dicono gli esperti.

Oggi la nube che è stata l’incubo delle compagnie aeree si è diradata e i voli hanno ripreso a partire. Si possono dunque tirare le prime cifre del disastro, il quale se è costato tantissimo alle tasche delle compagnie (si parla di un danno da 1,2 miliardi di euro), pare sia stato un bene per l’ambiente. Non solo infatti lo schermo nero ha riflesso i raggi del sole, abbassando (anche se di poco) le temperature di tutta Europa, ma ha permesso, con 5 giorni di stop dei voli, di risparmiare una quantità impressionante di Co2 emessa: quasi 3 milioni di tonnellate.

Marzo 2010: il marzo più caldo della storia

anomalie temperature marzo 2010

Combinando la temperatura terrestre globale e la temperatura della superficie dell’oceano durante il mese scorso, la NOAA (National Ocean and Atmospheric Administration) ha calcolato che quello appena passato è stato il mese di marzo più caldo mai registrato nella storia. Prese separatamente, le temperature dell’oceano medie sono state le più calde di qualsiasi marzo, mentre la superficie terrestre globale è stata la quarta più calda di sempre.

Inoltre, il pianeta ha visto il mese di gennaio come il quarto più caldo della storia. Il mensile National Climatic Data Center ha effettuato un’analisi che si basa sui documenti risalenti al 1880, per calcolare la variazione delle temperature negli anni. Dopo il salto vedremo i risultati.

Il riscaldamento globale fa diventare gli oceani più salati e le zone secche ancora più aride

misurazioni oceaniche

Il ciclo dell’acqua potrebbe diventare ancora più duro nelle regioni aride, le quali rischiano di diventare ancora più secche, mentre le regioni ad alta piovosità potrebbero diventare ancora più umide all’aumentare della temperatura atmosferica. E’ questa la fotografia della Terra tra qualche anno, secondo lo studio effettuato dagli scienziati CSIRO Paul Durack e la dottoressa Susan Wijffels, il quale mostra la superficie dell’oceano che, a causa delle temperature più alte, ha aumentato l’evaporazione, diventando sempre più salato.

Il documento conferma inoltre che il riscaldamento della superficie degli oceani del mondo negli ultimi 50 anni è penetrato nell’interno degli oceani stessi, cambiandone i modelli di salinità delle profondità oceaniche.

Agenti patogeni e clima, geografia delle malattie umane

agenti patogeni climaSe la vostra regione di residenza ha un clima caldo e umido e diversi tipi di uccelli e mammiferi che vi vivono, c’è una probabilità molto alta che la zona conterrà anche numerose specie di agenti patogeni che causano le più svariate patologie.
Un nuovo studio esamina la geografia delle malattie umane. Si tratta di una ricerca guidata dal dottor Rob Dunn della North Carolina State University, a fianco di un team internazionale di biologi e scienziati sociali, che dimostra come si possa prevedere il numero di tipi di agenti patogeni che causano malattie in una regione solo conoscendone il clima o il numero di uccelli e mammiferi che vi si trovano.

“Sono tanti i fattori, afferma Dunn, che influiscono sulla diversità e la quantità di agenti patogeni in una data regione: densità, numero di abitanti, il numero di anni che è stata abitata, la spesa pubblica per il controllo delle malattie. Ognuno di questi ha indubbiamente una certa influenza, ma l’ambiente è dominante.”

“Noi immaginiamo di avere sotto controllo la natura, ma nessuno sembra averlo detto alla natura”, ha proseguito Dunn. “L’ambiente e, nel suo senso più ampio la natura, determinano  il numero di tipi di malattie in varie regioni del mondo in misura ancora maggiore di come hanno influenzato il numero di specie di uccelli, mammiferi, formiche o api.”

Ricerca mette in dubbio ecologia dei Nativi Americani

stalagmiteEtichettati spesso come i primi veri ecologisti, attenti alla difesa degli equilibri della Madre Terra, rispettata e onorata, i Nativi Americani sono ora sotto accusa a causa di una stalagmite (nella foto a destra). Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Ohio University suggerisce infatti, sulla base del ritrovamento di un reperto, che i primi Nativi Americani hanno lasciato un’impronta di carbonio più grande di quanto si pensasse, fornendo prove che l’uomo è stato colpito dal riscaldamento globale già molto tempo prima dell’era industriale moderna.

L’analisi chimica di una stalagmite trovata nel bacino montuoso di Buckeye Creek nel West Virginia suggerisce infatti che gli indigeni americani hanno contribuito ad un significativo aumento del livello di gas serra nell’atmosfera attraverso lo sfruttamento del territorio. I primi Nativi Americani bruciavano gli alberi delle foreste per far spazio a colture di alberi da frutto, come le noci, che rappresentavano gran parte della loro dieta.

“Essi avevano raggiunto un livello abbastanza sofisticato di vivere che non penso le persone abbiano pienamente apprezzato”, ha spiegato Gregory Springer, professore associato di scienze geologiche alla Ohio University e autore principale dello studio, pubblicato di recente sulla rivista The Olocene. “Erano molto progrediti, e hanno saputo ottenere il massimo delle foreste e dai territori in cui vivevano in tutto il Nord America, non solo in poche aree (come avviene oggi, ndr).”

Disastro Exxon Valdez, vent’anni dopo si contano ancora i danni

disastro exxon-valdez24 marzo 1989: la petroliera Exxon Valdez, di proprietà della Exxon Mobil, si incaglia in una scogliera dello stretto di Prince William, riversando nelle acque oltre 38 milioni di litri di petrolio. I 42.000 m³ di greggio si disperdono nel mare inquinando 1.900 km di coste. L’impatto immediato fu la morte di 250.000 uccelli marini, 2.800 lontre, 300 foche, 250 aquile di mare testabianca, circa 22 orche e miliardi di uova di salmone e aringa.

Nel 1991 la Exxon Mobil fu condannata ad un risarcimento di un miliardo di dollari. A distanza di oltre vent’anni dal disastro, un team di scienzati dell’Alaska ha scoperto che il petrolio fuoriuscito dalla Exxon Valdez viene ancora ingerito dalla fauna selvatica. La ricerca, pubblicata sulla rivista di divulgazione scientifica Environmental Toxicology and Chemistry, ha utilizzato biomarcatori per rilevare l’esposizione a lungo termine al petrolio nelle anatre arlecchino e dimostra come le conseguenze delle fuoriuscite di petrolio siano ancora visibili anche a distanza di decenni.

Relazione Ispra: Italia sempre più calda, perde ghiacciai e biodiversità

anziani caldo

Nonostante la politica continui ad affermare che il riscaldamento globale non esiste, ecco arrivare, come un fulmine a ciel sereno, la pubblicazione della relazione dell’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. I dati raccolti nell’anno 2009, elaborati e resi noti nei giorni scorsi fanno rabbrividire, e dimostrano non solo che il riscaldamento globale esiste eccome, ma anche che l’Italia è tra i Paesi industrializzati che ne sta pagando le maggiori conseguenze.

Il dato più preoccupante riguarda le Alpi, la zona che più di altre sta risentendo dell’aumento delle temperature in quanto ha più difficoltà ad adattarsi. Tutta la catena montuosa che delimita i confini del nostro Paese ha mostrato una diminuzione della quantità di ghiacciai di due terzi rispetto a 150 anni fa, mentre la parte solo italiana è del 40% inferiore rispetto al diciannovesimo secolo, cioè si è quasi dimezzata. Questo è facilmente visibile con una semplice osservazione, dato che i ghiacciai minori sono scomparsi e quelli maggiori si sono lentamente frammentati.

Ciò significa che c’è meno acqua, minor risorse da sfruttare per i cittadini che abitano in quelle zone, e si sa che se si perdono le risorse idriche montuose, tutto l’ambiente è destinato a collassare. Se si considera infatti che non sono solo le Alpi a perdere i ghiacciai, ma tutte le catene montuose del mondo, si capisce come, di questo passo, tra qualche decennio non potremo più recuperare acqua dolce dalle montagne, le maggiori riserve idriche del mondo.