Oltre 500 milioni di persone a rischio a causa dei danneggiamenti dei delta dei fiumi di tutto il mondo

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Un nuovo studio condotto dalla University of Colorado di Boulder indica che la maggior parte dei delta dei fiumi del mondo sta affondando a causa delle attività umane, rendendoli sempre più vulnerabili alle inondazioni dei fiumi e alle tempeste oceaniche, mettendo decine di milioni di persone a rischio.

Mentre per la relazione del 2007 del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, i delta dei fiumi sono a rischio a causa dell’innalzamento del livello del mare, il nuovo studio indica che altri fattori umani stanno causando questo affondamento in modo significativo. I ricercatori hanno concluso che la distruzione dei delta dall’Asia alle Americhe è dovuta ai lavori sui sedimenti da parte di serbatoi e dighe, canali artificiali e argini, che spingono i sedimenti negli oceani al di là delle pianure alluvionali costiere, dovuto all’estrazione dalle acque sotterranee di gas naturale.

Lo studio conclude che 24 delta sui 33 principali del mondo stanno affondando, e che l’85% ha già sperimentato gravi inondazioni negli ultimi anni, causando la sommersione temporanea di circa 160.000 chilometri quadrati di terra. Circa 500 milioni di persone nel mondo vivono vicino questi luoghi.

La devastazione delle zone umide farà sparire molte città nell’arco di tre secoli

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Nel corso degli ultimi quattro anni, 340 miglia quadrate (pari a 547 km quadrati) di zone umide nei dintorni di New Orleans sono scomparsi, causando quello che i biologi affermano sia la più veloce perdita di terra intorno alle città della storia. 350 di questi chilometri quadrati sono stati persi a causa degli uragani Rita e Katrina. Il resto è stato a causa dell’erosione causata dall’uomo.

Ora si è finalmente realizzato che, se le zone umide fossero state protette meglio prima di Katrina, il danno non sarebbe stato altrettanto grave, e che tali zone umide potrebbero impedire la scomparsa definitiva della città di New Orleans. Ecco perché.

Foreste in salvo con l’ecocarta della Scottex

foreste-ecocarta-scottexLa conservazione delle foreste. Un obiettivo importante per l’uomo quanto respirare. Per respirare. Da anni Greenpeace lotta contro colossi come la Kimberly-Clark per spingerli ad adottare politiche green che tutelino e preservino il patrimonio boschivo terrestre. E una vittoria è stata finalmente ottenuta, in queste ultime settimane la multinazionale Kimberly-Clark che produce con i marchi Kleenex, Scottex e altri, all’avanguardia nella produzione di tessuti in fibra di carta in più di ottanta Paesi nel mondo, ha finalmente preso un’importante decisione che salverà migliaia di foreste, vale a dire l’adozione di standard per l’acquisto di fibre.

Un primo passo fondamentale che servirà, lo si spera, da esempio per molte altre multinazionali che hanno basato la loro fortuna e il loro successo sulla carta. Che di alberi vivono, come tutti noi. E che farebbero bene ad interessarsi maggiormente all’impatto ecologico delle loro industrie e dei loro prodotti.

Nike e Geox si impegnano a salvare l’Amazzonia grazie a Greenpeace

foto: Greenpeace
foto: Greenpeace

Un’altra vittoria portata a casa da Greenpeace. Questa volta sotto accusa c’erano le grandi multinazionali delle scarpe, le quali si interessano poco alla provenienza della pelle bovina che utilizzano per assemblare il prodotto finito. In particolare la problematica riguardava la deforestazione dell’Amazzonia.

Dopo ricerche sotto copertura durate 3 anni, i volontari di Greenpeace hanno potuto accertare che larga parte della deforestazione amazzonica avviene per far posto ai grandi allevamenti di bovini, da cui poi viene tratta la pelle che finisce alle multinazionali. Per questo Greenpeace ha chiesto con forza che queste si impegnassero ad informarsi maggiormente sulla tracciabilità dei loro materiali, e che non acquistassero nulla che provenisse dal Sudamerica, finché non fosse certo che le pelli trattate non provengano da pascoli illeciti.

Scandalo in Brasile: tremila imprese fornivano legno da foreste protette in tutto il mondo

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Il Brasile è uno dei Paesi maggiormente sotto la lente d’ingrandimento della comunità internazionale a proposito della lotta ai cambiamenti climatici. Responsabile della maggiore deforestazione del mondo, a causa della continua distruzione della foresta Amazzonica, l’enorme Stato sudamericano non ha ratificato finora nessun trattato internazionale, accettando le linee di principio soltanto con molte riserve. Da oggi potrebbe essere accusato di un problema in più.

Se state cercando di acquistare dei prodotti che utilizzano legname sostenibile, materiale cioè che, nonostante sia proveniente dal Brasile, abbia ottenuto le autorizzazioni e adottato le norme ecologiche, soprattutto se originario dello Stato di Pará, potreste avere una brutta sorpresa. Mongabay, uno dei blog più attenti all’ambiente, segnala che un procuratore federale brasiliano ha avviato un’inchiesta su alcune società carioca sospettate di raccolta illegale di legno da aree protette proprio in quello Stato. Dopo aver raccolto illegalmente il legname, secondo gli investigatori, questo veniva fatto arrivare negli Stati Uniti dove otteneva l’eco-certificazione, e da cui poi veniva spedito nell’Unione europea e nei mercati asiatici.

Ecco cosa accade se non preserviamo le foreste dalla riconversione a colture per biocarburanti

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Tutte le più recenti scoperte sulle emissioni prodotte dai cambiamenti nell’uso del territorio devono essere prese in considerazione per determinare se i biocarburanti siano veramente utili come emissioni di carbonio e come fonti di combustibile. Una nuova ricerca svolta presso il Global Change Research Institute mostra che l’inserimento delle emissioni di carbonio dovute alla deforestazione abbassa l’effetto della mitigazione dei cambiamenti climatici. In breve se non cominciamo a gestire le nostre foreste, tutto potrebbero sparire entro il 2100 per fare posto alle colture di biocarburante.

I ricercatori sono giunti a questa conclusione dopo aver utilizzato un computer che progetta un modello economico che prende in considerazione l’energia, l’agricoltura, i cambiamenti nell’uso del suolo, le emissioni e le concentrazioni di gas ad effetto serra per capire meglio come le decisioni umane e i processi naturali interagiscano tra loro nel controllo del clima.

Il Principe Carlo predica bene ma razzola male

Qualche giorno fa vi abbiamo riferito della visita del Principe Carlo d’Inghilterra in Italia, in cui ha ribadito, come ha fatto in tutto il mondo, che bisogna prendere provvedimenti urgenti per evitare il disastro climatico a cui stiamo andando incontro. Ma forse il Principe si riferiva più agli altri Governi che a sè stesso.

Una delle attività del Principe è la vendita di prodotti alimentari. Alcuni prodotti della sua linea però contengono un ingrediente che sta distruggendo intere foreste in tutto il mondo: l’olio di palma. Questo ingrediente è presente in cinque dei prodotti del suo Duchy Originals, la gamma di generi alimentari biologici venduti nei negozi britannici.

Il paradosso sta nel fatto che negli ultimi anni, il principe Carlo ha lottato in favore dell’Amazzonia e dell’Indonesia, sensibilizzando politici, imprese e il pubblico sulla necessità di salvare le foreste pluviali, la cui rapida distruzione uccide animali rari e accelera il cambiamento climatico. Due anni fa l’erede al trono ha istituito un progetto sulla foresta pluviale con l’appoggio di 18 società tra cui Goldman Sachs e McDonald’s per la campagna contro la deforestazione.

Pericolosa accelerata nella distruzione della foresta amazzonica

Frantumati, carbonizzati, o nella maggior parte dei casi, tagliati. Così appaiono ettari ed ettari di terreno nella foresta amazzonica (o forse sarebbe meglio chiamarla ex foresta amazzonica) brasiliana. I nuovi territori dedicati al pascolo vedono decine di animali d’allevamento prendere il posto degli alberi. Quegli animali che alzano la testa e vedono in lontananza gli ultimi superstiti dei tronchi di legno di una vegetazione una volta fitta, che molto presto non ci sarà più.

Queste terribili scene sono sempre più presenti in molte zone del Brasile, in cui si sta facendo spazio ai ranch bovini in espansione a causa dell’incremento della domanda di carne sul mercato brasiliano, uccidendo letteralmente uno dei polmoni della Terra per meri fini economici.

Piantagioni per biocarburanti nelle foreste tropicali sono nocive per il clima e la biodiversità

Biocarburanti si, biocarburanti no. Questo è l’amletico dubbio che anima il dibattito scientifico sui carburanti ecologici che per imporsi come alternativa al petrolio dovranno ancora superare più di un ostacolo e molte perplessità.
L’ultima è quella che arriva da uno studio pubblicato sulla rivista di divulgazione scientifica Conservation Biology, ad opera di un team di ricercatori della Denmark’s Nordic Agency for Development and Ecology (NORDECO).

Stando a quanto esposto dagli studiosi, le piantagioni tropicali destinate alla produzione di materie prime per biocarburante, nel momento in cui rubano terreno alle foreste, sarebbero nocive per il clima e per la biodiversità.
Mantenere le foreste pluviali intatte, infatti, è il modo migliore per combattere il cambiamento climatico rispetto alla loro sostituzione, anche se questa sostituzione può risultare utile per la produzione di carburanti puliti.

Ultimi scempi dell’amministrazione Bush, una legge contro le foreste protette

Durante l’ultima visita all’amico Bush del nostro amato premier Silvio Berlusconi, mi hanno colpito le parole di elogio rivolte dal nostro primo ministro all’amministrazione Bush. Una delle migliori della storia americana, ha detto con sguardo adorante rivolto al buon George.
A giudicare dall’espressione esterefatta dello stesso presidente degli Stati Uniti, anche lui stentava a credere che un simile encomio fosse realistico. Anzi, sembrava quasi dispiaciuto, come a dire: mi sono impegnato tanto per governare nel peggiore dei modi, questo ora mi viene a dire che sono stato bravo. C’è qualcosa che non va.

Infatti, di cose che non vanno il caro Bush ne ha fatte tante, soprattutte contro l’ambiente, che è quello che ci interessa. Tralasciando l’amara questione del protocollo di Kyoto, l’ultima, ma non in ordine di gravità, è una nuova politica statale che è di recente entrata in vigore negli States che ha eliminato la maggioranza delle misure protettive adottate in più di 400.000 ettari di parchi nazionali.

Una petizione contro la deforestazione nella penisola di Sumatra

Delle conseguenze della deforestazione nella Penisola di Sumatra, che mette a rischio l’habitat di molti animali, tra cui le tigri, avevano già parlato tempo fa. Ma finalmente il governo indonesiano ha deciso di fare qualcosa di concreto per mettere un freno al disastro, arginando le perdite.

Ogni anno, infatti, si perdono milioni di dollari di capitale naturale proprio a causa del taglio delle risorse boschive.
Qualcosa, come dicevamo, sembra smuoversi: ieri i politici indonesiani, nel corso dell’IUCN World Conservation Congress a Barcellona,  hanno firmato un piano  che mira a proteggere le foreste rimanenti, salvando gli ecosistemi in pericolo sull’isola di Sumatra.

Le farfalle monarca rischiano di perdere il loro paradiso invernale

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Ogni anno milioni di farfalle monarca (Danaus plexippus) migrano dal Nord America fino al Messico, compiendo un viaggio di 72 giorni e di circa 5 mila chilometri. Sorvolando tutti gli Stati Uniti, giungono nelle foreste di abeti dello stato di Michoacan, per trascorrervi l’inverno e poi ripartire a primavera. Ma da diversi anni, l’intensa deforestazione che interessa l’area sta mettendo in pericolo l’unica zona in cui sverna la monarca.

Numerosi boscaioli sfruttano, infatti, anche illegalmente, le foreste al confine tra lo Stato del Michoacan e quello del Messico, alterando sensibilmente l’habitat delle farfalle. Secondo alcuni ricercatori dell’Università del Kansas, la migrazione invernale dei lepidotteri potrebbe scomparire in breve tempo. La distruzione delle foreste, infatti, provoca gravi danni all’ambiente e agli ecosistemi, riducendo anche la diversità biologica.