Scovare un briciolo di felicità nel cielo, in qualcosa di più solido del deserto in cui si sta tramutando il mondo. Conservare la fiducia nella vita e nel genere umano, malgrado tutto. Questo e molto altro simboleggiava per Anna Frank l’ippocastano crollato al suolo lunedì scorso, dopo oltre 150 anni di vita, per molti dei quali è stato per tutti il simbolo di qualcosa di più alto, l’amico di quei giorni di clausura che tutti conosciamo perché raccontati in un diario (scritto dal luglio del 1942 all’agosto del 1944) dalla penna della sua giovane protagonista, la ragazza tedesca di tredici anni rifugiatasi ad Amsterdam nel 1933, e costretta a nascondersi durante l’occupazione nazista in un rifugio segreto, protetta da una libreria girevole che nasconde la sua famiglia nel sottotetto alle perquisizioni delle SS.
Durante i 25 mesi di clandestinità, prima della deportazione che le fu fatale nel lager di Bergen-Belsen, dove morirà di tifo, quell’albero fu per Anna fonte di emozioni e deposito di speranze, perché avere la possibilità di ammirare la bellezza della natura le restituiva, per alcuni attimi, la libertà di immaginare un destino diverso e di recuperare fiducia nell’umanità.